Oggi vi presento EMMA
Chi è Emma?
Mi chiamo Emma Maiorino (@emma.maiorino) ho 25 anni e sono cresciuta a Torino sebbene le mie radici siano diverse, sparse in lungo e in largo sul territorio italiano.
Sono una testa divisa tra le due identità in costante conflitto dei Gemelli e alle spalle ho una lunga carriera da “avvocato delle cause perse”.
Forse per questi motivi non ho mai avuto paura di cambiare: sono sempre alla ricerca del giusto equilibrio, senza diffidare dell’anticonvezionale.
L’indole creativa mi ha portato a frequentare un anno di Liceo Artistico; l’anno dopo l’indole del “desidero studiare di più” mi portò al Liceo Classico-Linguistico.
Le lingue mi hanno aiutata a crescere e ad andare molto più lontano di quanto avessi potuto immaginare: ad Amsterdam a fare test di ammissione, poi a Venezia a frequentare l’Università IUAV in Design della moda, a Berlino a vivere e lavorare, all’expo di Milano ad esporre il mio lavoro per LINEAPELLE Fair…
A Dicembre 2019 mi sono laureata come Designer di Moda con uno spiccato intuito per la progettazione di borse e accessori.
La pandemia mi ha tagliato le ali proprio nel momento in cui dovevo spiccare il volo, ma fortunatamente sono rimasta a galla costruendomi autonomamente nuovi strumenti e stimoli.
Sono atterrata su IG durante la quarantena vendendo mascherine realizzate dando nuova vita agli avanzi di tessuto che avevo accumulato all’università.
Su questa piattaforma mi si è piano piano aperto un mondo che mai avrei immaginato potesse nascondersi dietro ad uno schermo così piccolo.
Qui ho iniziato a leggere, vedere, sentire, imparare e quindi sensibilizzarmi in particolare ai temi legati all’eco-sostenibilità.
Il punto di svolta è arrivato lo scorso aprile in occasione della FashionRevolutionWeek. Venire a conoscenza della storia del Rana Plaza fu la scintilla che accese prima repulsione e poi estremo bisogno di consapevolezza.
Da quel giorno smisi di entrare nella maggior parte dei negozi di abbigliamento e mi resi conto che non volevo investire la mia forza lavoro in un sistema così sporco e ingiusto.
Cosa fai nella vita?
Ad oggi sono una designer di moda profondamente sensibile alle problematiche legate all’eco-sostenibilità.
Dalla presa di coscienza sul dramma della Fast-Fashion è nata la mia attività su Instagram (@emma.maiorino): ogni giorno lavoro per diffondere consapevolezza, conoscenze che ho acquisito negli anni sul mondo del tessile e della moda in generale, e la filosofia che applico quotidianamente nel mio armadio: riusa, ripara, scambia, rivaluta…
Col 2022 inizia un nuovo capitolo molto importante per la mia formazione: un Master in Management e Sostenibilità per il Prodotto Moda al fine di conciliare le competenze di designer e i valori di etica ed eco-compatibilità che mi contraddistinguono.
Inoltre sono quasi pronta a lanciare un progetto di design che da tempo ho in serbo: si tratterà di borse d’UPcycling.
Cosa significa per te la parola moda?
Se pensiamo al termine “moda” come lo si usa in statistica possiamo dargli un’accezione quasi scientifica: uno stile o una caratteristica maggiormente frequente in un campione sociale.
Il mondo della moda e del costume, però, è molto più ampio e articolato di quello che si pensi comunemente.
La moda, in quanto insieme di tendenze che definiscono attraverso l’abbigliamento personalità, categoria sociale, mestiere, etc…, è dalle più lontane origini un flusso continuo e in costante mutamento con un andamento che potremmo descrivere “a risacca”: come le onde del mare, periodicamente torna indietro riprende qualcosa di passato e lo riporta al presente.
In questo flusso viaggiano parallelamente diverse scuole di stile: quella di Parigi, quella di Londra, di Milano, di Anversa, New York, Tokio.
All’interno di ognuna di queste si distinguono anche le correnti sociali o sottoculture che frammentano a loro volta una tendenza di stile in un altro ventaglio di sfumature.
Molto accade sulle passerelle e nelle menti dei designer, ma molto altro prende forma direttamente per strada.
I singoli individui spesso definiscono moda la selezione di tendenze che seguono loro stessi, quelle che vedono nella loro cerchia sociale, quelle che vengono proposte dai negozi di riferimento.
A mio avviso “moda” è solo un piccolo termine che racchiude complessità e varietà e di conseguenza molta più inclusione di quello che si pensi.
La moda, l’abbigliamento, le tendenze sono specchio della nostra società, del nostro mondo, dell’economia del territorio, dell’evoluzione scientifica, tecnologica e del lavoro…ed è l’unico strumento che abbiamo per raccontare chi siamo, almeno in parte, al senso della vista.
Parlaci della tua passione per la moda e per la creatività..
Sono figlia di un musicista e una designer di grafica e comunicazione e questo ha fatto di me una bambina molto creativa fin dalle origini: l’attività ludica non era quasi mai veicolata da oggetti e giocattoli preimpostati bensì dall’invenzione con qualsiasi tipo di materiale che fosse a portata di mano.
In quest’ottica i giochi più frequenti riguardavano i vestiti: bambole di cartoncino a cui creare un guardaroba intercambiabile; barbie da vestire e svestire con abiti sia nuovi che vintage ereditati dall’infanzia di mia madre, e altri creati a mano; orsetti da vestire trasformando vecchie calze consumate…
Non c’è un’origine esatta della mia ossessione per i vestiti (perché di ossessione si tratta) ma sicuramente è qualcosa che porta con sé radici di famiglia: chi lavorava all’uncinetto, chi disfava e rifaceva maglioni a seconda delle mode, chi vendeva abbigliamento, chi cuciva cappotti all’età di 16 anni…
Moda e sostenibilità, come reputi questo connubio?
Nell’epoca del “tutto sostenibile” preferisco usare termini come eco-compatibilità, eco-sostenibilità, etica: mi sembrano più precisi.
L’eco-sostenibilità purtroppo non è una scienza capace di darci delle risposte e delle soluzioni esatte, è un aggettivo sostantivato con cui definiamo tutto ciò che viene prodotto o realizzato con un maggiore e nuovo impegno nei confronti del rispetto per l’ambiente e per le persone, lavoratori o consumatori che siano.
È più sostenibile ciò che viene prodotto in piccola scala, ciò che viene prodotto artigianalmente, ciò che viene pensato in un’ottica di economia circolare: pensato per nascere, essere utilizzato ed essere smaltito senza lasciare tracce peccaminose.
Di conseguenza è più sostenibile l’abbigliamento che viene prodotto, consumato e smaltito seguendo questi princìpi.
Citando Dario Casalini vestire sostenibile si può tradurre in “vestire buono, pulito e giusto”.
Buono è un maglione che è stato prodotto con fibre naturali, che contribuiscono positivamente alla termoregolazione corporea; che non porta sulla nostra pelle residui di sostanze chimiche, dannose o addirittura tossiche e illegali secondo le nostre leggi.
Pulito è un maglione che non ha richiesto eccessive emissioni di CO2 o ancor meglio che ha sfruttato energie rinnovabili; che non ha subito colorazioni e lavaggi in sostanze tossiche, che senza essere filtrate siano state rilasciate nell’ambiente.
Giusto è un maglione che è stato prodotto da persone rispettate, pagate, protette e non sfruttate; che, se è realizzato in fibre di origine animale, queste provengano da allevamenti regolati da norme etiche.
Quali sono le nuove prospettive della moda?
Mi piace pensare che l’attivismo crescente riesca un giorno a normalizzare il rispetto nella produzione che avviene nei paesi in via di sviluppo.
Essenziale sarebbe la riduzione delle nuove proposte con il ritorno alla stagionalità come ha iniziato a fare Gucci; un’offerta che sia ridotta ma molto ben progettata, affinché sia durevole sia per fattura che per versatilità del design: esempio maestro è il brand milanese Les Izmoor che propone un solo capo a stagione studiato per avere molteplici modalità di utilizzo.
Riuso e upcycling sono certamente parole chiave che hanno già preso piede soprattutto tra i giovani designer.
L’applicazione di queste pratiche è certamente favorevole in termini di creatività e di ideologia, tuttavia è impensabile applicarle in larga scala.
Il riciclo e rigenerazione di tessuti e filati ha grandi potenzialità nella misura in cui si continui a lavorare fibre biodegradabili: ad oggi la riciclabilità del poliestere, per esempio, rischia di diventare una scusa per continuare a produrre fibre sintetiche mascherata da un illusorio velo di eco-sostenibilità.
Ovviamente tutto questo dovrebbe accadere parallelamente ad una regressione del fast-fashion che purtroppo, però, ancora non dà alcun segnale di questo genere, anzi.
Sicuramente sarà essenziale smettere di pensare ad un prodotto e trovare il modo per realizzarlo a qualsiasi “costo ambientale”, bensì focalizzarsi sul materiale che si ha a disposizione e progettare a partire da quello.
Infine, finché vorremo guadagnare tanto, non potremo fare grandi passi avanti: non c’è cambiamento là dove c’è grande business.