Greenwashing è un neologismo inglese usato spesso come tale anche in italiano, senza il bisogno di essere tradotto, e identifica un “ambientalismo di facciata”.
Ovvero quelle situazioni in cui una strategia di comunicazione è volta a dare un’immagine virtuosa – sotto il profilo dell’impatto ambientale – di un’azienda, un’istituzione o in generale di una organizzazione, anche se a tale quadro descrittivo non corrispondono azioni di pari valore in termini di sostenibilità.
Il primo a usare tale neologismo fu l’ambientalista americano Jay Westerveld nel 1986, in relazione all’invito da parte di alcune catene alberghiere verso i propri ospiti a ridurre il consumo degli asciugamani per scopi ambientali quando, secondo Westerveld, l’unico scopo era in realtà legato al risparmio.
Alla base di questa richiesta nei casi presi ad esame non vi era quindi una bugia ma dietro a uno spicchio di verità dichiarata “green” solo una questione economica e l’azione non era accompagnata ad altre disposizioni e provvedimenti volti a ridurre l’impatto ambientale delle strutture.
In Italia, ad esempio, manca una legge specifica che vieti o comunque disciplini il greenwashing, e tutto rimane sotto la vigilanza delle varie Autorità.
A marzo la Commissione Europea ha proposto di aggiornare la disciplina anche per tutto ciò che può essere inerente alla transizione verde, proponendo un nuovo diritto all’informazione trasparente e veritiera e la lotta alle pratiche commerciali sleali in relazione alla dichiarata sostenibilità dei prodotti.